Boves e Mostra della Resistenza

Piemonte | Boves (CN)

Il luogo e le vicende

Di antichissime origini, come testimoniano le strade romane che attraversano il suo territorio, Boves sorge ai piedi della Bisalta, a 600 mt di altitudine sul livello del mare e a soli 9 chilometri da Cuneo. Il suo comune è un esteso territorio nel cuore delle Alpi, solcato longitudinalmente dal torrente Colla che dà il suo nome alla valle. Il 19 settembre 1943, a pochi giorni dall’armistizio, Boves fu teatro della prima strage tedesca in Italia: 24 persone furono uccise dalla divisione SS nazista Leibstandarte “Adolf Hitler” e 350 case vennero date alle fiamme per rappresaglia. Nei giorni precedenti, molti soldati della IV Armata sbandati in seguito all’8 settembre, dalla Francia avevano raggiunto Boves e la val Colla attraverso le montagne: il paese, infatti, per la sua vicinanza al confine francese e per la fitta presenza di boschi, parve loro quasi un rifugio naturale per scampare alla prigionia e alla deportazione in Germania. Ad essi, poi, si unirono presto giovani della zona e, alle pendici della Risalta, si costituirono, in forma ancora non organizzata e senza obiettivi chiari, i primi nuclei di resistenti. I nazisti, che avevano occupato Cuneo il 12 settembre senza incontrare particolari ostacoli, evidentemente a conoscenza della presenza in quella zona di nuclei armati ostili e preoccupati delle notizie che indicavano come ad essi si stessero unendo giovani del luogo, decisero di intervenire. Il 16 settembre, sui muri di Boves comparvero manifesti che invitavano i militari sbandati a presentarsi con le armi per essere avviati nei campi di prigionia e, lo stesso giorno, una colonna corazzata di SS comandata dal maggiore Joachim Peiper mosse verso la città. Dopo un breve cannoneggiamento verso le colline circostanti, i tedeschi fecero radunare tutti gli uomini rintracciabili e ordinarono l’immediata resa di coloro che resistevano sulle montagne, minacciando dure rappresaglie sulla popolazione civile. Il 19 settembre due sottoufficiali SS giunti a Boves si imbatterono fortuitamente in una pattuglia partigiana e vennero fatti prigionieri. Immediatamente, la città venne occupata in forze dalle truppe del maggiore Peiper che ordinò a due ambasciatori – il parroco don Giuseppe Bernardi e l’industriale Antonio Vassallo – di convincere i “ribelli” a restituire i prigionieri. A restituzione avvenuta, però, mancando alla parola data, non solo comandò l’uccisione dei due ambasciatori e ne bruciò i cadaveri ma ordinò anche la rappresaglia sull’intero paese. Due mesi dopo, durante un nuovo rastrellamento antipartigiano delle truppe del maggiore Peiper che per quattro giorni misero a ferro e fuoco la periferia di Boves e le frazioni della Bisalta, una rappresaglia ancora più brutale colpì il paese: tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio 1944 420 case del paese vennero nuovamente bruciate e 52 persone, tra civili e partigiani, furono uccise. Ciò nonostante, alle brigate partigiane che operavano nella zona – la 177ª Garibaldi e la “Bisalta, formazione legata a Giustizia e Libertà – non mancò mai il sostegno della popolazione anche se l’occupazione nazista e le rappresaglie sulla popolazione di Boves continuarono fino alla liberazione. L’ultimo eccidio avvenne a Liberazione avvenuta, il 26 aprile 1945, quando le truppe tedesche in ritirata fucilarono 7 bovesani prelevandoli dopo la mezzanotte dalle loro case. Per i non invidiabili primati nel numero delle vittime e nelle distruzioni la cittadina fu insignita nel 1961 della medaglia d’oro al valor civile e poi, nel 1963, della medaglia d’oro al valor militare.

Tutte queste memorie sono oggi custodite e diffuse nell’intero territorio di Boves e della val Colla, cosparsi di lapidi e monumenti a ricordo di donne e uomini caduti durante la lotta di Liberazione. Nel centro città è stato persino ideato un itinerario denominato I luoghi della memoria che percorre le tappe principali di quella lunga storia di eccidi: dal palazzo del municipio (ove sono custoditi lunghi elenchi dei caduti nelle due guerre, le motivazioni delle medaglie d’oro assegnate al paese e le lapidi dedicate ai due “ambasciatori di pace”, don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo) alla piazza d’Italia dove qua e là sono incisi i nomi di numerosi caduti, nel punto esatto dove furono uccisi dai nazisti. Dal palazzo del Municipio vecchio, in via Marconi – che ospita oggi la Scuola di Pace e la mostra sulla Resistenza della pittrice partigiana Adriana Filippi – alla piazza Caduti per la Libertà, dove è stato trasferito nel 1984 il monumento di Nardo Dunchi dedicato alla Resistenza. Sparsi per la città, poi, sono stati dislocati diversi totem composti da testi e immagini che raccontano gli eventi legati a quei luoghi, vicoli, strade e piazze. Oltre a questo esteso tracciato della memoria, in questi sessant’anni la città ha fatto un grande sforzo per rielaborare il trauma collettivo della guerra, sia attraverso la cura posta nel non dimenticare sia tramite un’esperienza unica nel suo genere e degna di particolare rilievo. Nel 1984, infatti, l’amministrazione comunale diede vita ad una “Scuola di pace” che per statuto «ripudia la guerra», un’istituzione del tutto originale per conservare il ricordo del passato recente e che, da oltre vent’anni, organizza incontri, conferenze, corsi e laboratori su vari temi che hanno come obiettivo l’educazione alla convivenza pacifica tra gli uomini. Nello stesso palazzo del Municipio vecchio in cui opera la Scuola, è oggi conservata una testimonianza straordinaria della lotta partigiana in Val Colla: una mostra di dipinti e disegni di Adriana Filippi, maestra elementare che, in tempo di guerra, sfollò con la madre a San Giacomo di Boves, l’ultimo villaggio alpino verso la cima della Bisalta, sovrastante l’altipiano di Cuneo. Dopo l’8 settembre, esse videro dunque arrivare i primi soldati sbandati che su quelle montagne cercavano rifugio e, sempre da lassù, assistettero all’incendio di Boves del 19 settembre. Senza prevederlo, dunque, madre e figlia si ritrovarono al centro delle vicende partigiane della Val Colla: trasformarono la loro piccola casa in un ambulatorio per i feriti, si improvvisarono infermiere valendosi di mezzi di fortuna come l’uncinetto per estrarre schegge e collaborarono in vario modo con le formazioni dei “ribelli”. Oltre a ciò, Adriana Filippi, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Firenze, iniziò a ritrarre luoghi e figure di quel periodo, disegnando e dipingendo su tele di fortuna, utilizzando per cavalletto una lastra di pietra o un tronco o la schiena della madre. Raffigurava intense scene di vita partigiana, i momenti di riposo, le sofferenze dei feriti, la solitudine e la precarietà di quei giovani combattenti, i loro ritratti, eseguendo le sue opere dal vero, quasi fosse una reporter di guerra con pennello e cavalletto. Dal dipinto elaborato in un periodo di calma allo schizzo furtivo e improvvisato nei momenti più rischiosi, nei venti mesi di convivenza con le brigate partigiane la Filippi mise insieme 156 quadri che, uno dopo l’altro, nascose sottoterra per non rischiare di essere scoperta da un eventuale rastrellamento e che dissotterrò alla fine della guerra. La raccolta venne esposta con grande rilievo nel 1955 a Roma nelle sale degli appartamenti del comando di polizia tedesco ed annesso carcere di Via Tasso 145, dove in seguito sarebbe stato allestito il Museo storico della Liberazione.

Comune di Boves (Cn)